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AMERICA
Nelle case dei senza casa

Un terreno libero a Portland, Oregon. E un sogno, Dignity Village: una città a misura di homeless. Per ora rifugio, domani forse seconda chance nella vita, per chi ha perso tutto
di Francesca Gentile
Foto di Paul Fusco


Si autodefiniscono dei "sopravvissuti", gli ospiti di Dignity Village, ed è come un marchio appiccicato sulle facce, sulle mani, nell'odore dei vestiti: sono scampati al freddo delle notti passate sotto i ponti o nei portoni, agli assalti della polizia e dei teppisti. E hanno trovato una casa comune a Portland, Oregon, West Coast americana. "No, non chiamateci homeless", dicono, "è una parola infamante: può capitare a chiunque di perdere tutto e non sapere dove andare a sbattere la testa". È vero, soprattutto ora che la recessione non smette di mietere vittime. Secondo il National Law Center for Homelessness and Poverty, l'anno scorso i senza casa negli Stati Uniti erano più di 3 milioni. Altri 5 milioni di persone, i cosiddetti working poors, sono considerati a rischio. Lavorano, ma spendono più della metà degli introiti per pagare un affitto, e non hanno risparmi: un problema di salute inaspettato o l'impossibilità di pagare i conti può condurli direttamente sulla strada. Dignity Village è una piccola risposta a un grande problema. Oggi ci vivono 83 persone, dai vent'anni in su, in prevalenza bianchi. Insieme hanno compiuto un miracolo. Chiodi e martelli alla mano, secondo la politica che definiscono di "suddivisione egualitaria del sudore", hanno creato un centro d'accoglienza non profit, dove i "sopravvissuti", a differenza di quanto accade nei ricoveri pubblici, possono lasciare in custodia gli oggetti personali senza la certezza di venire derubati; o farsi una doccia; o dormire chiudendo entrambi gli occhi; o essere visitati da medici e dentisti gratuitamente. Ritrovando, nella vita di comunità, l'energia necessaria per uscire, cercarsi un lavoro. Ma Dignity Village è anche, e forse soprattutto, una piccola, prima alternativa a servizi sociali oggi più che mai in grave difficoltà. "A Portland ci sono circa 4500 homeless adulti e 1500 bambini. I letti a disposizione sono solo 600 e 125 le case popolari. Così 1700 persone dormono all'aperto ogni notte", racconta Jack Tafari, testone rasta, un passato senza tetto né legge: è il presidente di Dignity Village ("preferisco ritenermi un soldato combattente", precisa). "I tagli alla spesa sociale hanno peggiorato tutto: qui abbiamo una lunghissima lista d'attesa, e non riusciamo a soddisfare tutte le richieste". Il villaggio è a 40 minuti di autobus dal centro della città, a ridosso della prigione, su un terreno di proprietà del Comune. Oggi l'animazione è tanta, si sta montando un nuovo scaldabagno che il prossimo inverno garantirà acqua calda per tutti. "Chi entra qui deve seguire delle regole", spiega Jack: "Prima di tutto non sono ammesse droghe e bevande alcoliche, poi viene espulso chi ruba e chi aggredisce gli altri. Ogni ospite deve contribuire con dieci ore di lavoro alla settimana, sulla base delle proprie capacità". La storia iniziò il 16 dicembre 2000 quando Jack e altri sette compagni piantarono cinque tende su un terreno pubblico, infrangendo l'ordinanza locale anti-camping. Un atto di disobbedienza civile che ebbe una forte risonanza. Prima di arrivare a Sunderland Avenue, dove abitano adesso, hanno traslocato cinque volte ("la gente ci buttava addosso montagne di spazzatura per farci sloggiare") portandosi dietro una scia di carrelli da supermercato stracolmi. Le parades di protesta che seguivano ogni sfratto, con il tempo sono diventate un evento per i media e una seccatura per le autorità. Alla fine la città ha ceduto, mettendo a di-sposizione un lotto di terreno per 2000 dollari al mese. E le iniziali tende sono state sostituite da piccole abitazioni, costruite assemblando pezzi riciclati, trovati nelle discariche. L'architetto Mark Lakeman è uno dei visionari innamorati dell'idea: "Dignity è anche l'incontro di personalità originali e creative: dal punto di vista architettonico, si ispira alle cittadine italiane, con la piazza centrale circondata dalle abitazioni, che sono ricalcate su modelli ancestrali, come i kiva preistorici e i teepee dei nativi americani. Il segreto del villaggio, benché si trovi ancora in una fase espressiva "infantile", è nei suoi componenti: un gruppo compatto che sta imparando a comporre un orizzonte urbano comunitario. Dignity Village è un'esperienza importante per tutti i cittadini di Portland. Ma il processo è lento e fragile, nasce da persone ferite che hanno bisogno di tempo per ritrovare stabilità e progettualità". Nel dome, il fabbricato al centro del villaggio, ci si ritrova per le riunioni o semplicemente per mangiare un piatto caldo. Elizabeth Spry, donna tranquilla, sulla sessantina, gli occhi azzurri e i capelli bianco latte, si occupa di catalogare e ridistribuire le donazioni. I vestiti vengono raccolti in un magazzino, le medicine in una roulotte, libri e video in un vecchio pullman. C'è anche una "lista dei desideri", compilata dai residenti, da ricontrollare all'arrivo di ogni nuovo carico. Elizabeth dedica all'attività 40-60 ore settimanali. Gli ospiti capaci, ma renitenti al lavoro, non sono molti: la "pigrizia" deriva generalmente da un uso prolungato di stupefacenti e da scarsa educazione. Elizabeth non rientra in questa categoria, è piuttosto una vittima del sistema sanitario in mano ai privati. La perdita della copertura assicurativa medica, dovuta nella maggior parte dei casi alla disoccupazione, è una piaga che riguarda già 41 milioni di americani e sta intaccando il benessere della classe media. "Mio marito", spiega Elizabeth, "era elettricista, io facevo la casalinga e mi occupavo dei nostri sei figli. Vivevamo in una grande casa in Texas, acquistata con un mutuo: 1300 dollari al mese. Tutto sommato ce la siamo cavata bene fino a quando mio marito è rimasto vittima di un incidente che non gli ha più permesso di lavorare. Abbiamo tentato di entrare nel welfare, ma le leggi texane rendono molto difficile l'accesso. Per un po' ho lavorato in un negozio di alimentari, con ritmi massacranti, ma ho dovuto smettere per una malattia al cuore. Persa l'assicurazione, non potevamo ricevere le cure necessarie. Poi siamo rimasti senza soldi e senza la casa. Un camioncino malconcio è diventato la nostra nuova residenza, certi giorni riuscivamo a racimolare qualche spicciolo suonando la chitarra per strada. L'anno scorso siamo arrivati a Dignity Village. Qui possiamo mantenere le nostre abitudini e una vita di coppia: in un dormitorio pubblico ci avrebbero separati. Non abbiamo scelto noi la strada: in questo preciso momento potrei essere nella cucina di casa mia, a preparare biscotti per i miei nipoti. Invece, purtroppo, è andata così". Nel villaggio non sono ammesse persone che non abbiano compiuto 18 anni, e l'assenza dei bambini certamente pesa. Un drappello di cani e gatti gironzola qua e là, e svolge una funzione importante: fanno compagnia, prendono il posto dei figli sottratti, spesso in custodia alle istituzioni pubbliche. Dignity Village per qualcuno è solo una tappa di passaggio. Rosalyn, per esempio, vi ha trascorso pochi mesi, il tempo di riprender fiato, poi ha trovato un lavoro, ha affittato un appartamento e riottenuto il figlio da cui era stata separata. Lyle, 48 anni, è riuscito invece ad avere un monolocale nelle case popolari, alla cifra simbolica di un dollaro al mese, con l'impegno di pagare l'affitto quando si sarà procurato un impiego. "Purtroppo il lavoro non sempre garantisce la sopravvivenza", spiega Ibrahim Mubarak, portavoce del villaggio: "C'è chi fa i turni da McDonald's, ma non può lasciare il villaggio perché non sarebbe in grado di mantenersi con lo stipendio. Per questo pensiamo di aprire le porte anche a chi ha un basso reddito. La mia storia? Sono sulla strada per colpa di un matrimonio finito male: avevamo due auto, il giardino, una figlia adorabile, insomma era l'autentico american dream. Poi mia moglie si è innamorata di un altro e con il divorzio ho perso tutto. Sono entrato in depressione e non sono più riuscito a risalire la china. Sono senza casa da 12 anni, ho persino rischiato la morte quando un disgraziato ha cercato di darmi fuoco. Mia moglie si è risposata, mia figlia non mi vuole vedere. Certo, rappresento quanto di peggio possa esserci in America: sono nero, musulmano e homeless", conclude con una risata, aggiustandosi la kefiah intorno alla testa. Un capitolo a parte andrebbe dedicato alle donne sole, il 13% dei senzatetto. Violenza domestica e abuso sui minori sono tra i fattori che le gettano sulla strada. Sherry, 23 anni, magrissima, bionda, una collana borchiata stretta al collo, parla a fatica. Abitava a Los Angeles con la famiglia adottiva, quando, compiuti i 13 anni, è stata trasferita in un'altra famiglia in affido temporaneo. Il motivo non lo ha mai saputo. La sua compagna, Angie, ha 33 anni. Sono insieme sulla strada da due anni. Hanno salvato la pelle, dicono, per pura fortuna. Nel villaggio si sentono protette, come le altre donne, e sono libere di vivere in coppia. Il futuro? "Non ce l'abbiamo", risponde Angie, "non sappiamo dove sia". Il futuro di Dignity Village, invece, si deciderà a ottobre, allo scadere del contratto d'affitto. Il progetto della comunità prevede l'acquisto di un sito permanente per una cifra non superiore ai 500 mila dollari, e la campagna per la raccolta dei fondi è già cominciata. Ma sarà dura. Dovessero averla vinta i "sopravvissuti", Dignity diventerà un villaggio con abitazioni fatte di paglia e stucco, secondo le tecniche naturali in uso a fine '800, e pannelli solari per l'energia. Negli Stati Uniti, è un "sogno" che potrebbe estendersi. (Foto dell'agenzia Magnum/Contrasto)